La Repubblica Ceca vieta Lenin, il nuovo fascismo boemo che mette fuorilegge la “propaganda comunista”

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La Repubblica Ceca vieta Lenin, il nuovo fascismo boemo che mette fuorilegge la “propaganda comunista”

La Repubblica Ceca vieta Lenin, il nuovo fascismo boemo che mette fuorilegge la “propaganda comunista”

Unico caso in Europa

Cinque anni di carcere per chi indossa una maglietta con la faccia del rivoluzionario russo. Un emendamento al codice penale vieta la propaganda comunista, proibito il simbolo della falce e martello

Kay Nietfeld/dpa via AP
Kay Nietfeld/dpa via AP

Quel che succedeva a Praga, una volta, irrompeva subito al centro della propaganda politica in Italia. Per vent’anni, le forche, le purghe, i carri armati hanno infiammato la retorica pubblica, non soltanto in periodo elettorale. A cominciare da De Gasperi, ciò che combinavano ad Est veniva immediatamente enfatizzato perché avrebbe dovuto suggerire il de te fabula narratur alle capitali d’Occidente.

Adesso che dalla Repubblica Ceca vengono segnali molto chiari di autoritarismo, nessuno accenna a quanto sta accadendo sotto il governo di Petr Fiala. Mezzo Pd condivide l’equiparazione tra comunismo e nazismo. E in tanti hanno votato le risoluzioni proposte al Parlamento europeo dai nipotini dei regimi fiancheggiatori di Hitler tra le due guerre. Eppure la Boemia non è poi così lontana. Unico caso in Europa di un parlamento che si ritrova vuoto alla sua sinistra, lì comandano gli alleati di Meloni e, per il ricambio, si agitano le truppe amiche di Salvini. Con simili formazioni al timone, potrebbe effettivamente consolidarsi un laboratorio per costruire nel bacino del fiume Elba l’ennesima autocrazia del terzo millennio.

Rivelando una sensibilità anticomunista acuta a Praga i promotori della recente legge liberticida vogliono proibire il simbolo della falce e martello. Prevedono inoltre fino a 5 anni di galera per chi indossa una maglietta con il volto di Lenin. Nelle piazze, prima del diluvio occhettiano, numerosi erano i ragazzi in marcia con l’immagine dell’avvocato condottiero che in dieci giorni sconvolse il mondo. Tutti da sbattere dietro le sbarre? E il senatore dem Mario Tronti, che a Palazzo Madama celebrò da par suo l’Ottobre, merita anche lui una esemplare scomunica postuma? Il testo della disposizione firmata dal presidente Pavel, un ex generale della Nato, introduce addirittura il delitto di “odio di classe”. Non solo il vecchio Marx, ma pure Machiavelli non se la passerebbe bene nei tribunali cechi. Sulla scontata sorte della barba di Treviri non servono tante parole. Forse abbatteranno il monumento in bronzo a Karlovy Vary, dove il Moro andava per le cure termali. Quel che fa specie, codice penale alla mano, è che il Segretario fiorentino stesso sarebbe chiamato a comparire sul banco degli imputati.

Il reato? Aver evocato il conflitto di classe che mise Roma antica “sottosopra” qualche tempo dopo “la contenzione della legge agraria”. Per diversi lustri, “questa legge stette come addormentata”. Poi però, attorno alla distribuzione della terra, nacquero “fattioni” per cui, in vista degli averi, “si accese tanto odio intra la plebe et il senato”. Lo scontro tra i due “omori”, dal piano formale delle istituzioni, si spostò su quello materiale dell’economia. La battaglia per “dividere gli onori e le sustanze” scatenò infuocate “dissensioni” sociali. Alla fine, nell’urto “rimase superiore la nobilità”, che non lesinò strumenti financo eccezionali, perché “come si venne alla roba fu tanta la ostinazione sua nel difenderla”. Così, quattro secoli di repubblica furono spazzati via con il trionfo del cesarismo. Ma il crollo sarebbe avvenuto probabilmente prima, se la plebe non avesse, per “isfogare l’appetito suo”, lottato contro “l’ambizione de’ grandi”. La contraddizione avrebbe presto eroso la libertà romana poiché, a seguito degli “scandoli” tesi a ripartire “intra la plebe i beni”, la nobiltà appariva ostile ad ogni legislazione concepita per “tenere ricco il pubblico”. I tumulti della plebe contro gli “uomini potenti”, le “inimicizie di Roma” per reagire dinanzi alla “ambizione de’ nobili”, proiettano un clima di contesa la cui apprensione è vietata dalle procure praghesi.

L’odierno inquilino conservatore di Villa Kramář, sodale di Giorgia Meloni, chiuderebbe in gattabuia perfino Dante, che non riuscì a trattenere l’odio politico. Il Canto VIII descrive appunto l’incontro nella “lorda pozza” con un suo nemico. Tra le “fangose genti”, Filippo Argenti lo accoglie chiedendogli: “Chi se’ tu che vieni anzi ora?”, e si augura di incrociarlo di nuovo tra quanti peccarono. Nulla, né la pietà cristiana né la ragione classica di Virgilio (che, anzi, diventato accanito partigiano, bacia il poeta e urla al suo avversario: “Via costà con li altri cani!”), è in grado di placare Dante. Verso il persecutore “pien di fango” che in vita lo costrinse all’esilio, con un linguaggio di assoluta violenza, egli inveisce: “Spirito maladetto, ti rimani; / ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto”.

L’odio in politica non è cancellabile, e un sentimento pur così distruttivo (“qui staranno come porci in brago, / di sé lasciando orribili dispregi”) Dante non lo camuffa: “Maestro, molto sarei vago / di vederlo attuffare in questa broda, / prima che noi uscissimo del lago”. E anche Virgilio comprende lo sbotto: “Di tal disïo convien che tu goda”. All’arrogante rivale, mentre precipita nelle acque e viene aggredito dai dannati, non resta che prendersi a morsi (“e ‘l fiorentino spirito bizzarro / in sé medesmo si volvea co’ denti”). Nelle fetide onde dell’Europa di oggi, questi conservatori, che “si tegnon or là sù gran regi”, sono capaci di buttare chiunque dissenta in una blindata palude Stigia e di edificare ovunque salgano al potere una prosaica città di Dite. Almeno un passaggio, in un sonnolento question time, si potrebbe forse azzardare, caro Gianni. Sarebbe un modico segno di premura per una faccenda di libertà sequestrata, oltre che di memoria sfregiata.

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